IL RISVEGLIO DEL CADUCEO DORMIENTE: la vera genesi dell'Homo sapiens

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VIDEO SINOSSI DELL'UOMO KOSMICO

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Con questo libro Marco La Rosa ha vinto il
PREMIO NAZIONALE CRONACHE DEL MISTERO
ALTIPIANI DI ARCINAZZO 2014
* MISTERI DELLA STORIA *

con il patrocinio di: • Associazione socio-culturale ITALIA MIA di Roma, • Regione Lazio, • Provincia di Roma, • Comune di Arcinazzo Romano, e in collaborazione con • Associazione Promedia • PerlawebTV, e con la partnership dei siti internet • www.luoghimisteriosi.it • www.ilpuntosulmistero.it

LA NUOVA CONOSCENZA

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GdM

sabato 28 gennaio 2017

CHIMERE : TRA MITO E...REALTA'



SEGNALATO DAL DR. GIUSEPPE COTELLESSA (ENEA)

CHIMERA MITOLOGICA:


"La chimera è un mostro mitologico con parti del corpo di animali diversi. Secondo il mito greco fa parte della progenie di Tifone ed Echidna, insieme all'Idra di Lerna, Cerbero e Ortro. Venne fatto comparire nella "Tentazione di sant'Antonio" di Flaubert".

CHIMERA  BIOLOGICA:

"In zoologia, una chimera è un animale che ha due o più popolazioni differenti di cellule geneticamente distinte che sono originate da diversi zigoti; se le cellule differenti emergono dallo stesso zigote viene chiamato mosaico genetico. Le chimere sono formate a partire da quattro cellule parentali (due uova fertilizzate o embrioni precoci fusi assieme) o da tre cellule parentali (un uovo fecondato viene fuso ad un uovo non fertilizzato oppure un uovo fecondato viene fuso con dell'ulteriore sperma). Ciascuna popolazione cellulare conserva le proprie caratteristiche e l'animale risultante è una miscela di regioni mal assortite. Un'analogia sono due puzzle tagliati in modo identico, ma con figure differenti. Un singolo puzzle può essere formato da parti male assortite, ma il puzzle completo mostrerà regioni di entrambe le differenti figure. Questa condizione può essere acquisita attraverso l'introduzione di cellule ematopoietiche allogeniche durante un trapianto, con una trasfusione di sangue o può essere ereditata. Nei gemelli eterozigoti, il chimerismo si verifica attraverso l'anastomosi dei vasi sanguigni. La probabilità che un bambino sia una chimera è aumentata se questo è stato concepito attraverso la fecondazione in vitro. Le chimere sono spesso in grado di riprodursi, ma la fertilità e il tipo di progenie dipendono da quale linea cellulare ha dato origine alle ovaie o ai testicoli. Le chimere sono state chiamate così in analogia con la creatura mitologica Chimera".

topolino chimerico con un suo discendente

LA NOTIZIA:

<< Un nuovo organismo ottenuto inserendo cellule staminali umane in una cellula uovo fecondata di maiale ha prodotto una chimera con un limitato "contributo" umano. Il risultato, ottenuto dal Salk Institute, dimostra che le difficoltà di queste ricerche sono maggiori del previsto, ma permette di accantonare temporaneamente le preoccupazioni etiche sulla possibilità di produrre organismi chimerici "troppo umani".>>

Un embrione chimerico formato da cellule di maiale e cellule umane è stato ottenuto da un gruppo di ricerca del Salk Institute di Baltimora, nel Maryland, guidato da Izpisua Belmonte e Jun WuIl risultato, pubblicato sulla rivista “Cell”, segue quello analogo di un gruppo dell'Università della Californa a Davis reso noto a giugno dello scorso anno, ma dimostra che il contributo umano all'organismo così realizzato è inferiore al previsto, smorzando gli entusiasmi sulle possibili ricadute terapeutiche di questo tipo di ricerche.

I limiti delle chimere uomo-animale:


Microfotografia della fase di iniezione delle cellule staminali in un embrione di maiale (Credit: Juan Carlos Izpisua Belmonte)

Le chimere, organismi realizzati in laboratorio formati da cellule derivate da  esseri umani e da specie animali, potrebbero essere un modello utile per studiare le prime fasi dello sviluppo  embrionale e per testare farmaci, o ancora per crescere tessuti e organi per la medicina rigenerativa. Si tratta di obiettivo estremamente ambizioso, perseguito da istituti di ricerca di tutto il mondo. Uno dei primi successi nel campo degli organismi chimerici fu ottenuto proprio da Belmonte e Wu con ratti e topi, i due ricercatori silenziarono in cellule uovo di topo fecondate uno specifico gene necessario per lo sviluppo di un organo, e introdussero nell'embrione cellule staminali di ratto. Il risultato fu un topo con un tessuto pancreatico di cellule di ratto. “Le cellule di ratto avevano una copia funzionale del gene di topo mancante, e hanno così potuto fare le veci delle cellule di topo nello sviluppo dell'organo mancante”, ha spiegato Wu. Il passo successivo è stato introdurre cellule umane in un organismo animale i cui organi fossero simili ai nostri nelle dimensioni. La scelta è caduta prima sui bovini, e infine sui suini, che comportano costi minori. Le difficoltà si sono dimostrare subito decisamente superiori che nella ricerca precedente, per vari motivi. In primo luogo, esseri umani e maiali sono filogeneticamente molto più distanti tra loro di quanto siano ratti e topi. Inoltre, i suini hanno un tempo di gestazione che è solo un terzo di quello umano, il che ha richiesto un'estrema precisione cronologica per l'introduzione delle cellule staminali umane nel corretto stadio di sviluppo del maiale. Per superare queste difficoltà, i ricercatori hanno utilizzato vari tipi di cellule staminali umane per verificare quali si comportassero meglio ai fini dello studio: quelle che hanno dimostrato di vivere più a lungo e con le maggior chance di continuare a svilupparsi erano le cellule staminali pluripotenti definite “intermedie”. “Le cosiddette cellule pluripotenti 'naïve' somigliano alle cellule di una precedente fase di maturazione, che hanno un potenziale di sviluppo illimitato, mentre le cellule 'primed' hanno uno maturazione maggiore, pur rimanendo pluripotenti”, ha aggiunto Wu. “Le cellule intermedie stanno da qualche parte in mezzo alle due”. Le cellule staminali umane sono sopravvissute e hanno formato un embrione chimerico uomo/maiale che poi è stato impiantato nell'utero di una scrofa, dove ha seguito uno sviluppo di tre/quattro settimane.

                                  foto: lo studio su "CELL"

“Si tratta di un tempo abbastanza lungo da permetterci di comprendere in che modo le cellule umane partecipavano allo sviluppo embrionale senza dover affrontare le questioni etiche che vengono sollevate nel caso di animali chimerici più maturi”, ha spiegato Izpisua Belmonte. Il risultato però è stato deludente: anche usando le migliori cellule staminali umane, il livello di contributo agli embrioni chimerizzati è risultato piuttosto basso, e limitato alla formazione di muscoli e dei precursori degli organi.Per Belmonte si tratta comunque di una buona notizia, almeno da un certo punto di vista. Una delle maggiori preoccupazioni dei ricercatori è che le chimere possano diventare “troppo umane”, contribuendo per esempio alla formazione del cervello. Le questioni etiche, almeno per il momento, possono essere accantonate.

… O FORSE …NO ? (ndr – MLR).


http://www.lescienze.it/news/2017/01/26/news/embrione_chimerico_maiale_uomo-3397164/

PER APPROFONDIMENTI:






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mercoledì 25 gennaio 2017

IL "RITORNO" DI ETTORE MAJORANA !


Majorana anziano in convento: ecco le foto delle nuove prove !

“Una perizia calligrafica e una antropometrica confermano che la scrittura e i tratti somatici dell’uomo delle immagini sono gli stessi dello scienziato scomparso nel ‘38”.

di Rino Di Stefano

“C’è una svolta nel caso Majorana. Nuove prove, emerse proprio negli ultimi giorni dell’anno scorso, confermano che lo scienziato, scomparso nel nulla il 27 marzo del 1938, in effetti si sarebbe davvero rifugiato in un convento del Sud Italia, dove avrebbe poi concluso i suoi giorni ormai centenario”.

QUESTA FORMIDABILE INCHIESTA DI RINO DI STEFANO E’ SICURAMENTE UNA DELLE PIU’ IMPORTANTI NOTIZIE DEGLI ULTIMI 50 ANNI. LE NUOVE PROVE EMERSE SONO DAVVERO SCONCERTANTI E LE IMPLICAZIONI ...SARANNO DAVVERO IMPREVEDIBILI...

BUONA LETTURA:





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domenica 22 gennaio 2017

IL “MIRACOLO” DELLA RIGENERAZIONE E RIPARAZIONE DEI TESSUTI



SEGNALATO DAL DR. GIUSEPPE COTELLESSA (ENEA)

La Dott.ssa Noa Shenkar e la studentessa Tal Gordon del Dipartimento di Zoologia dell’Università di Tel Aviv hanno recentemente trovato una piccola creatura marina capace di rigurgitare tutto il proprio apparato digestivo in caso di pericolo, e quindi di rigenerarlo. Secondo lo studio, pubblicato il 16 marzo 2015 all’interno della rivista Nature Group, con questa scoperta si potrebbe progredire con le analisi sul processo di rigenerazione degli organi negli esseri umani.
Spiega la Dott.ssa Shankar:

“Come parte integrante dell’iniziativa per la classificazione delle specie viventi in Israele, effettuiamo delle ricerche su alcuni invertebrati marini, chiamati “Tunicati”, che vivono nella barriera corallina di Eilat. Abbiamo scoperto che alcune specie di ascidia riescono ad espellere qualcosa quando si tenta di toccarle. Dopo le analisi, si è scoperto che l’oggetto espulso era il loro sistema digestivo”.


I ricercatori hanno esaminato numerosi esemplari di ascidia ed hanno notato che, in risposta ad una leggera pressione meccanica, essi rifiutano il loro sistema digestivo. Gli esperti hanno notato anche che il piccolo animale si ritrae per circa 48 ore e, successivamente, si riapre ed il tutto ricomincia a funzionare normalmente.

“Ci siamo resi conto, con grande stupore, che l’ascidia esegue un processo miracoloso di rigenerazione e riparazione dei tessuti. Rigenera il suo intestino in 12 giorni e le sue branchie in 19 giorni, vera fantascienza! Molti animali sono in grado di ricostruire parti del corpo che hanno perso. Ad esempio, le lucertole rinnovano la loro coda, le stelle marine le braccia e la tenia intere parti del corpo; ma tutti questi organi non sono essenziali per la sopravvivenza. Il tunicato riesce invece a rifiutare tutto il suo apparato digerente, organo senza il quale la vita è impossibile, riesce anche a sopravvivere e a rigenerarlo”.

Si è scoperto che il rifiuto del sistema digestivo è parte integrante di una strategia di sopravvivenza. Non è di solito utilizzato come alimento da parte dei pesci perché non ne amano il gusto. In uno degli esperimenti ricercatori hanno sottoposto 18 sistemi digestivi espulsi dalle ascidie ai pesci, ma sono stati tutti respinti. Non si sa ancora quale sia la componente che generi il “cattivo gusto” ma è possibile che ciò protegga le ascidie da potenziali predatori. Al di là dell’aspetto zoologico, la scoperta ha importanti potenziali applicazioni nel campo della ricerca medica:

“Il fenomeno delle emissioni di colon-retto è ben noto, soprattutto nelle oloturie (conosciuti anche come cetrioli di mare). Le ascidie però appartengono ad una specie più vicina ai vertebrati, compresi mammiferi e esseri umani, in termini di evoluzione. Nel corso dell’evoluzione alcuni processi fisiologici non sono cambiati, motivo per cui il processo di rigenerazione cellulare è molto simile al nostro. Quindi queste creature possono essere un eccellente modello animale per la futura ricerca medica sul tema del rinnovamento dei tessuti”.



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martedì 17 gennaio 2017

MARTE E...LA VITA


SEGNALATO DAL DR. GIORGIO PATTERA (BIOLOGO)

Tracce di microbi nelle rocce marziane?

Alcune strutture geologiche osservate su Marte dai rover della NASA potrebbero essere simili a rocce sedimentarie terrestri costruite da microorganismi. Questi i risultati dello studio di alcuni ricercatori del CNR. Con il commento di Filippo Giacomo Carrozzo (INAF)


Perché inviamo sonde verso pianeti lontani e lune ghiacciate? Perché costruiamo telescopi sempre più potenti? Trovare vita intelligente è il sogno di ogni astrofisico. Per adesso gli alieni in carne e ossa ce li possiamo dimenticare, ma gli astrobiologi potrebbero aver individuato indizi di attività microbiologica passata su Marte, dove un giorno arriverà anche l’uomo. Di recente un gruppo di ricercatori dell’Isafom-Cnr ha pubblicato su International Journal of Astrobiology uno studio in cui vengono evidenziate affinità strutturali tra le microbialiti terrestri – rocce di origine batterica – e i sedimenti marziani non solo sul piano microscopico, ma anche macroscopico.

I due ricercatori italiani Nicola Cantasano e Vincenzo Rizzo dell’Istituto per i sistemi agricoli e forestali del Mediterraneo del Consiglio nazionale delle ricerche di Cosenza (Isafom-Cnr) si sono concentrati su delle fotografie delle rocce marziane provenienti dai rover Opportunity, Spirit e Curiosity (della NASA) e hanno rilevato analogie anche nelle tracce attribuibili alla produzione batterica di gas e di gelatine adesive altamente plastiche. «Attestato già nel 2009 che le lamine sub-millimetriche dei sedimenti marziani e le cosiddette Blueberry (sferule ematitiche di dimensioni millimetriche) non erano omogenee, ma costituite da aggregazioni strutturali di grumi e microsferule più piccole (da 1 a 3 decimi di millimetro), i primi studi si erano concentrati sulla morfologia delle singole microstrutture, individuando altre interessanti aggregazioni, quali polisferule, filamenti e filamenti intrecciati di microsferule», spiega Cantasano. «L’attenzione si è poi spostata sulla dislocazione di tali microstrutture sul piano di osservazione: la tessitura delle immagini è infatti una sorta di marker genetico che dipende dall’ambiente di sedimentazione e dalla attività batterica. Tale analisi, eseguita su un gruppo di circa 40 coppie di immagini, sia dei rover che di microbialiti museali, ha evidenziato l’esistenza di interessanti trame a filamenti intrecciati, con forti parallelismi morfologici alla stessa scala». Questi parallelismi microtessiturali sono stati rilevati anche da altre ricerche sviluppate negli ultimi anni. «L’Università di Siena ha avviato un’analisi matematica frattale multiparametrica delle coppie di immagini, i cui risultati confermarono che esse sono identiche», aggiunge Rizzo. «Un ulteriore studio morfologico del Laboratorio de Investigaciones Microbiológicas de Lagunas Andinas-LIMLA su campioni di microbialiti viventi provenienti dal deserto di Atacama (Cile) ha permesso di evidenziare grazie alla pigmentazione organica che tali microstrutture e microtessiture esistono e sono un prodotto dell’attività batterica. Tuttavia, poiché le strutture a scala meso e macroscopica sono considerate discriminanti per il riconoscimento di tali rocce, nello studio attuale l’analisi microscopica è stata integrata da osservazioni sistematiche a scala maggiore. La quantità, la varietà e la specificità dei dati raccolti accreditano per la prima volta, in modo consistente, che le analogie non possono essere considerate semplici coincidenze».


 La tecnologia va avanti a passi di gigante e gli strumenti sono sempre più avanzati. I ricercatori hanno inventato telescopi giganti e rover per la ricerca di vita nello spazio, ma finora la vita che conosciamo qui sulla Terra non esiste altrove. Abbiamo chiesto un parere a Filippo Giacomo Carrozzo, ricercatore dell’INAF-IAPS di Roma.
«La probabilità di trovare attività biologica in corso su Marte sono basse perché oggi il pianeta è una Terra piuttosto inospitale. Il problema maggiore sta nella mancanza di uno scudo capace di fermare le radiazioni dannose per la vita. Sui pianeti questo scudo è il campo magnetico che, avvolgendoli, non permette ai raggi cosmici e alle particelle cariche del vento solare di passare. Su Marte questo scudo naturale oggi è praticamente assente, riducendo la superficie ad una Terra sterilizzata», spiega Carrozzo.

Uno dei problemi alla base della mancanza di vita è il freddo, ovviamente dovuto anche alla lontananza dal Sole: «La temperatura media, di gran lunga sotto lo zero, non rappresenta un problema serio; sulla Terra, nelle regioni artiche, alcuni organismi riescono a sopravvivere fino anche a -100°C. Per azionare i processi biologici gli esseri viventi hanno bisogno di energia, sulla Terra la fonte principale è fornita dal Sole. Su Marte, la luce solare arriva con una intensità minore del 56%. Una quantità sufficiente, paragonabile a quella che si ha a poche ore prima del tramonto. Se poi aggiungiamo che esseri viventi possono sopravvivere sfruttando altri tipi di energia come quella chimica, è evidente che questa sul pianeta potrebbe non rappresentare un grosso ostacolo». Carrozzo sottolinea, inoltre, l’importanza dell’acqua per la vita: «È l’elemento principale, tutti gli organismi viventi ne se sono composti in grandissima parte, il nostro corpo per esempio ne è costituito per il 60% circa. Il detto “dove c’è acqua c’è vita” vale anche per Marte. Sul Pianeta rosso questa molecola, essenziale alla vita, è presente in grande quantità; l’unico ostacolo è rappresentato dal fatto che si presenta sotto forma di ghiaccio o vapore. Tuttavia, la vita dipende in modo decisivo dalla disponibilità di acqua in forma liquida e le condizioni marziane ne permettono l’esistenza in solo per brevissimi istanti. Alla luce di ciò, personalmente credo che, se dobbiamo ricercare la vita su Marte, dobbiamo farlo scavando. È sotto la superficie che potrebbero essersi create delle nicchie di sopravvivenza dove la vita può ancora resistere, lontano dalle estreme condizioni a cui è sottoposta la sua superficie. Le ricerche condotte negli ultimi 30 anni in ambienti estremi sulla Terra hanno mostrato che la vita è in grado di colonizzare praticamente ogni ambiente, basta che sia disponibile energia, acqua liquida e i giusti elementi». Tornando allo studio del CNR, Carrozzo chiarisce: «Ogni essere vivente è costituito da una moltitudine di biomolecole, ma la maggior parte è composta da pochi elementi: il carbonio, l’idrogeno, l’ossigeno, l’azoto, il fosforo e lo zolfo sono gli elementi base per la creazione delle molecole funzionali alla vita. Sulla Terra sono presenti in abbondanza, su Marte molto meno. Tuttavia, non deve essere stato sempre così. La vita, se è nata quasi contemporaneamente sui due pianeti, circa 4 miliardi di anni fa, può aver avuto la stessa occasione di proliferare. L’ambiente marziano, per una serie di motivi, è purtroppo cambiato nel tempo rendendolo ostile e producendo una landa deserta. Quelle tracce potrebbero però essere sopravvissute. La mancanza di una tettonica a placche, che sulla Terra gioca un ruolo importante nel rimodellare la superficie, potrebbe aver conservato meglio i fossili all’interno delle rocce che aspettano solo di essere raccolte. Nel frattempo quello che possiamo fare è studiare il centinaio di meteoriti che sono stati riconosciuti come campioni di suolo marziano. Al loro interno gli scienziati cercano batteri sotto forma di fossili, biomolecole, o strutture riconducili a prodotti di attività biologica come nel caso del lavoro svolto dai ricercatori italiani Rizzo e Cantasano del CNR». «I due ricercatori dell’Isafom-Cnr di Cosenza sono solo un esempio dei molti colleghi che si occupano di astrobiologia e di esogeologia in Italia, tra cui quelli in forza all’Istituto Nazionale di Astrofisica», continua Carrozzo. «Da decenni l’Italia gioca un ruolo di primissimo piano nella ricerca di vita al di fuori della Terra. I ricercatori italiani sono impegnati nelle più importanti missioni per l’esplorazione del Sistema Solare e nel futuro il contributo del nostro Paese resta una preziosa risorsa per lo studio dei corpi planetari di interesse astrobiologico come Marte, Europa e Titano. Una nuova frontiera che sta destando sempre più interesse nella comunità scientifica è l’analisi dei pianeti extrasolari. L’impiego dei telescopi di nuova generazione sta riducendo la distanza che ci separa nella comprensione di questi sistemi planetari e nei prossimi anni potrebbe fornire delle importanti risposte sulla vita al di fuori del nostro Sistema solare».

DA:


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sabato 14 gennaio 2017

ASTEROIDI E ...CATACLISMI TERRESTRI...


Rischio asteroidi, scienziato NASA: “Al momento non c’è nulla che possiamo fare”

“L'ipotesi che un giorno neanche troppo lontano un asteroide possa puntare il nostro pianeta e produrre danni enormi non è pura fantascienza: è già successo, potrebbe succedere di nuovo, e secondo quanto dichiarato nelle scorse ore da uno scienziato della NASA non siamo affatto preparati all'eventualità”.

Lo scenario di un impatto distruttivo con un asteroide è stato ripetutamente esplorato al cinema (Armageddon, Deep Impact, Meteor, Cercasi amore per la fine del mondo, ecc ecc) e viene periodicamente richiamato da media e siti web con la passione per i titoli in stile “Moriremo tutti!” ogni volta che uno di questi oggetti passa nelle vicinanze (in termini astronomici) della Terra. Ad ogni modo, l’ipotesi che un giorno neanche troppo lontano un asteroide possa puntare il nostro pianeta e produrre danni enormi non è pura fantascienza: è già successo, potrebbe succedere di nuovo, e secondo quanto dichiarato nelle scorse ore da uno scienziato della NASA non siamo affatto preparati all’eventualità. «Fondamentalmente, il problema più grande è che non c’è nulla che possiamo fare al riguardo in questo momento», ha spiegato Joseph Nuth, ricercatore del Goddard Space Flight Center della NASA, durante un meeting dell’American Geophysical Union. Eventi del genere sono in fondo più comuni di quanto pensiamo, anche nel nostro quartiere nello spazio, ossia il Sistema Solare. Come spiegato da Nuth, nel 1994 Giove fu letteralmente bombardato dai frammenti della cometa Shoemaker-Levy 9, mentre nel 2014 un’altra cometa passò “ad uno sputo, in termini cosmici, da Marte”. Questo secondo oggetto fu individuato appena 22 mesi prima del suo passaggio ravvicinato nei cieli del Pianeta Rosso. Se fossimo stati noi il bersaglio allora non avremmo probabilmente avuto il tempo di reagire. «Se si considerano le tabelle di marcia per il lancio di navicelle ad alta affidabilità, occorrono cinque anni. Qui avevamo complessivamente 22 mesi di preavviso», continua il ricercatore. Proprio a gennaio di quest’anno, la NASA ha creato un ufficio di coordinamento per la difesa planetaria che, tra le altre cose, secondo quanto si può leggere sul sito del dipartimento è responsabile di “garantire la rilevazione anticipata di oggetti potenzialmente pericolosi, cioè asteroidi e comete le cui orbite previste li porteranno a meno di 0,05 unità astronomiche (circa 7,5 milioni di km, ndr) e con una dimensione sufficiente a raggiungere la superficie terrestre, vale a dire superiori a 50 metri [di diametro]”. Il tema del rischio rappresentato per l’umanità dagli asteroidi, come detto, non è assolutamente nuovo né per la fantascienza né, ancor meno, per la ricerca scientifica. Dibattiti sul tema sono in corso da tempo, ma una cosa sulla quale tutti gli scienziati concordano è che, prima o poi, la questione andrà affrontata seriamente: mandare Bruce Willis e qualche suo amico nel giro di meno di tre settimane è pura assurdità cinematografica. «I dinosauri non avevano un programma spaziale, quindi non sono qui per parlare di questo problema», aveva affermato qualche tempo fa Neil deGrasse Tyson, astrofisico e divulgatore scientifico. «Noi l’abbiamo, ed abbiamo anche il potere di fare qualcosa al riguardo. Non voglio che diventiamo gli zimbelli della galassia, quelli che hanno avuto il potere di deviare un asteroide e non l’hanno fatto e hanno finito per estinguersi». In effetti, i principali metodi allo studio per riuscire a deviare un asteroide nel caso se ne presentasse la necessità sono due: armi nucleari ed impattatori cinetici. Questi ultimi sono fondamentalmente delle gigantesche palle di cannone, ha spiegato durante lo stesso evento Catharine Plesko, ricercatrice del Los Alamos National Laboratory: «Si tratta di una tecnologia molto buona, perché si intercetta l’oggetto ad una velocità molto alta. Ma se c’è davvero bisogno di molta energia, il modo giusto è un’esplosione nucleare». Ad ogni modo, prima ancora di pensare a come affrontare un’emergenza, tutti gli scienziati concordano sul fatto che sia principalmente necessario migliorare i nostri sistemi di monitoraggio del cielo, oltre a sfruttare in modo sempre più efficiente quelli già esistenti.  
Secondo Nuth, si potrebbe pensare ad un apparato basato su “navicelle osservatrici”, delle vedette spaziali in grado di tenere costantemente sott’occhio gli oggetti potenzialmente pericolosi. Parallelamente dovrebbe essere mantenuta una flotta di navicelle in grado di intercettare questi asteroidi, da poter lanciare entro un anno: di fatto, si tratterebbe di missili da sparare contro questi oggetti. «Una navicella osservatrice potrebbe documentare l’asse, la forma e l’orbita dell’asteroide, il che ci darebbe le probabilità più alte di deviarlo dalla rotta di collisione con la Terra», conclude Nuth.

fonti e biblio:


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lunedì 9 gennaio 2017

MARTE E LE STRANEZZE ...ARTIFICIALI?


Ma quelle “torri” su Marte sono naturali o artificiali?

I cacciatori di anomalie dichiarano di aver trovato nuove prove sull'esistenza di un'antica e avanzata civiltà marziana.

 In questi giorni, sono state diffuse alcune immagini che mostrerebbero delle costruzioni artificiali sul pianeta Marte. Secondo i cacciatori di anomalie, queste immagini sarebbero la “pistola fumante”, ovvero la prova definitiva dell’esistenza di un’antica civiltà marziana ora estinta. La notizia, apparsa su alcuni siti web dei “teorici della cospirazione”, ha suscitato non poca curiosità e anche molte polemiche. Le immagini sono contenute nel video pubblicato dallo youtuber Mundodesconocido, il quale scrive che “indagando su alcune immagini di Marte, abbiamo trovato una fila di enormi torri situate nella zona marziana Terra Meridiani. A causa delle loro caratteristiche uniche, riteniamo che siano di origine artificiale”. Le immagini risalgono ad alcuni anni fa, e provengono da Mars Global Surveyor e Mars Reconnaissance Orbiter.

FOTO  DAL SATELLITE
ELABORAZIONE GRAFICA COMPUTERIZZATA DELLE ANOMALIE

 Oltre a quella evidenziata, non lontano dalla zona in cui sarebbe stata fatta la prima scoperta, è stata individuata un’altro complesso con un allineamento molto simile. Per i teorici dell’Antica Civiltà Marziana è impossibile che le strutture siano il risultato della normale erosione naturale. Secondo Scott Waring, curatore del sito web UFO SIGHTINGS DAILY, non c’è alcun dubbio sul fatto che si tratti di costruzioni artificiali, torri di circa 1,6 km di altezza che potrebbero essere usate, qualora fossero vuote, dagli uomini che colonizzeranno in futuro il pianeta. La Nasa, però, ci tiene a precisare che i rover che costantemente monitorano il Pianeta Rosso non hanno mai incontrato nulla di simile, e che tutte le numerose presunte scoperte di resti di antiche civiltà, geroglifici, scheletri e quant’altro, siano riconducibili a fenomeni di pareidolia. È anche vero, però, che i rover stanno esplorando solo determinate zone di Marte e, come già accaduto e affermato dalla stessa NASA, nel 2007 gli scienziati non si sarebbero accorti di alcune strutture rocciose che potrebbero essersi formate grazie a microrganismi. Peccato che per raggiungere di nuovo quella zona, si farebbe prima ad inviare un nuovo rover (che partirà nel 2020) piuttosto che “dirottare” uno di quelli già presenti.

Fonti e biblio:


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