del DR. GIORGIO PATTERA
Questo mio lavoro non vuol essere né un
trattato di fotografia scientifica (non ne ho la competenza) né tantomeno
l’esposizione saccente e parolaia ad una platea estatica e silenziosa di mirabolanti
esperimenti per lo più fini a sé stessi (non ne ho l’intenzione). E’
semplicemente il resoconto dei risultati ottenuti in oltre vent’anni di
ricerche, basate su alcune nozioni di fisica ed effettuate mediante l’uso di
una fotocamera tipo “reflex” e della pellicola KODAK INFRARED HIGH SPEED,
applicando al tutto una rigorosa metodologia scientifica, unitamente alla
basilare dote del ricercatore (la pazienza) e soprattutto confidando
nell’unico, vero arbitro della situazione: la fortuna! Non si spaventino dunque
gli eventuali neòfiti che mi dovessero leggere: per riprodurre i risultati cui
il sottoscritto (come già tanti altri) è giunto, non occorre possedere una
costosissima attrezzatura da fotografo professionista o la laurea in fisica;
ripeto che solo ai pigri, agli incostanti ed ai “casinisti” in genere
sconsiglio tale sperimentazione fotografica, perché sarebbero energie, tempo e
denaro sprecati. In quanto alla fortuna, beh...dicono che siano proprio i
principianti a goderne maggiormente: provare per credere! Attenzione però agli
entusiasmi troppo facili: qualunque “cosa” impressioni il negativo, non è detto
che sia di per sé un successo. Occorre valutare serenamente e realisticamente
ogni possibile interpretazione, senza “arrampicarsi sugli specchi” né “sparare”
conclusioni azzardate, affrettate o ridicole. Non dimentichiamo che ci si muove
con lentezza e difficoltà in un campo ancora sperimentale e, purtroppo,
misconosciuto: è fondamentale quindi non perdere di attendibilità.
Non ho difficoltà a riconoscere che anch’io
all’inizio ero un po’ scettico sull’argomento, tuttavia decisi di provare ed
ora non ne sono certo pentito. Appunto per questo colgo l’occasione per
esprimere attraverso queste righe il mio più sincero e commosso riconoscimento
al fraterno amico Roberto Balbi del CUN di Genova, prematuramente scomparso, il
quale, la (memorabile per me) notte tra il 25 ed il 26 aprile 1980, sfidando un
freddo inconsueto per quel periodo e quella zona, pazientemente mi insegnò la
tecnica della foto notturna e per di più mi donò un rullino all’infrarosso, non
essendo io nemmeno a conoscenza (allora) della reperibilità in commercio di
tale tipo di pellicola. In effetti, i cosiddetti << luoghi zanfrettiani
>> (ci trovavamo a Rossi, sui monti dell’entroterra genovese: gli
“addetti ai lavori” avranno già capito!) mi riservarono una fortuna sfacciata e
già quel primo rullino si rivelò un successo, quasi in ogni fotogramma.
Ma ora è tempo di entrare in dettagli
tecnici, ché i più curiosi staranno certamente fremendo.
Ciò che noi comunemente e semplicemente
chiamiamo << LUCE >> è definita in campo fisico come l’insieme di
radiazioni (od onde) elettromagnetiche prodotte dai corpi incandescenti e
quindi anche dallo spettro solare.
La lunghezza d’onda della luce è compresa tra
10-5 e 10-8 /metri
e più precisamente si distinguono: la radiazione infrarossa (10-5 -
10-6 ), la radiazione
visibile (10-6 - 10-7 )
e la radiazione ultravioletta (10-7 - 10-8 ).
L’occhio umano è in grado di percepire solo
il tipo di radiazione cosiddetta “visibile”; è evidente pertanto come esso sia
un recettore alquanto limitato, che copre solo la banda intermedia della luce.
Di contro, l’emulsione di alcune pellicole speciali, tipo appunto la KODAK
INFRARED, è capace di rimanere sensibilizzata anche da radiazioni che
esulano dal campo visibile umano (nel nostro caso quelle inferiori ai 10-6) e della cui esistenza, al momento
dell’apertura dell’otturatore, l’operatore non può accorgersi, anche se queste
sono presenti.
Lo schema dettagliato del procedimento è il
seguente.
Procuratosi il negativo di cui sopra presso
qualche negozio o laboratorio specializzato (non facilmente reperibile sul
mercato, anche per la scarsa domanda), il ricercatore, se prevede di non
impiegarlo subito, avrà cura di stoccarlo in frigorifero (+4 / +8 °C) nella sua
confezione originale, meglio ancora se racchiusa in un contenitore di
polistirolo espanso, onde preservarlo dall’umidità. Almeno quattro ore prima di
usarlo, togliere il rullino dal frigo e, liberatolo dal polistirolo e dalla
confezione originale, lasciarlo a temperatura ambiente (=20 °C) nel proprio
tubo di plastica nera (quello con la scritta “SEE WARNING”), per consentire
l’evaporazione di eventuali condensazioni.
Il caricamento della fotocamera deve essere
effettuato in oscurità assoluta (e non al “buio di camera oscura”,
perché la lampada rossa emette, tra le altre, proprio radiazioni infrarosse) e
lontano da qualsiasi fonte di emanazione termica.
Di solito io mi regolo così: carico la
fotocamera di notte, appena prima di uscire per lo sky-watch, in camera da
letto, con tapparelle e porta chiuse per eliminare le luci della strada.
Inoltre, per stare sul sicuro, inserisco il caricatore nella macchina stando
con le mani al di sotto delle coperte, in modo che anche eventuali radiazioni
accidentali (tipo il display della radiosveglia o i filamenti di tungsteno
delle comuni lampadine, accesi fino ad un attimo prima e non ancora
raffreddati) non possano interferire.
Non esiste una vera e propria sensibilità
sulla scala ASA-DIN per la pellicola Infrared, ma grosso modo si può
approssimare intorno agli 80 ASA. E’ buona norma, comunque, sovra-impostare arbitrariamente
l’indicatore di sensibilità della fotocamera (qualora essa ne sia dotata),
ponendo l’indice sui 400 ASA: questo per eliminare l’effetto del cosiddetto
“cielo nero”, che si verifica specialmente con tempi di posa piuttosto
prolungati.
Se non fosse possibile reperire la Kodak
Infrared, si può usare in alternativa l’ILFORD SFX (200 ASA) oppure il KONICA
Infrared 750 nm, anche se il “non plus ultra” in questo campo resta sempre
l’invertibile KODAK EIR (EKTACHROME INFRARED PROFESSIONAL), che consente di
ottenere splendide diapositive a colori, ad un costo tuttavia decisamente
superiore.
In questi ultimi tre casi è evidente che
l’impostazione deve essere reale, cioè rispondente alla sensibilità indicata
sull’involucro dalla Ditta produttrice (es. 200 ASA). Sono da preferire le
serate senza luna (ovviamente dopo il tramonto completo del sole: d’estate, con
l’ora legale, occorre attendere circa le h.22), possibilmente limpide, con
ottima e completa visibilità; si può operare anche con leggera foschia o nebbia
a banchi, purché accompagnata da brezza. Raggiunto il luogo prescelto per lo
sky-watch, si può procedere in due modi. Se ci si può valere dell’apporto di
apposite strumentazioni (quali: contatore Geiger, Orgonotester, rivelatore di
deviazione del campo magnetico, Ultrasonic sensor, ecc.), conviene predisporre
la fotocamera sull’infinito, con diaframma “tutto aperto” e tempo di
esposizione 1/100 o 1/125 di secondo (n.b.- se si dispone di fotocamera
automatica, si metta l’indice su “manual” oppure la si innesti su cavalletto,
munita di scatto flessibile e impostata su “auto”) e poi scattare, non appena
gli strumenti cominciano a registrare valori superiori a quelli medi normali,
oppure campi magnetici abnormi, oppure ancora vibrazioni ultrasoniche. Occorre
fare molta attenzione, perché questi sbalzi, di norma, sono improvvisi e durano
solo pochi istanti, per cui, se non si è già pronti, si corre il rischio di
lasciarsi sfuggire l’attimo giusto per scattare. Sarebbe buona cosa effettuare
ogni sky-watch almeno in cinque persone, in modo che, mentre uno controlla gli
strumenti, gli altri quattro si dispongono ognuno verso un punto cardinale, per
coprire così 360°; la fotocamera va puntata, se la visuale attorno è completa,
verso l’alto, con un’inclinazione sull’orizzonte di 30°-45°. Se poi si vuol
andare sul “fine”, si potrebbero anche impiegare i filtri WRATTEN, sempre della
Kodak; si tratta di particolari e sottilissime lastre quadrate di gelatina, che
hanno il compito speciale di lasciar passare solo le radiazioni
infrarosse. Apparentemente sono completamente neri, ma basta metterli di fronte
ad una lampadina accesa per rendersi conto del loro effetto: vedremo solo il
filamento di tungsteno incandescente, colorato però di un bel viola-cardinale.
Il loro costo è modesto, così come quello del porta-filtri universale,
adattabile a qualunque tipo di fotocamera; difficile però reperirli, se non
alla Kodak di Milano. Conviene comunque, una volta trovati, inserirli tra due lastrine
di vetro sottili e perfettamente pulite, a mo’ di montatura di
“quadretto all’inglese”, fissate con nastro adesivo trasparente: evitare
assolutamente la formazione di bolle d’aria tra
filtro e vetro. Solo così si conserveranno
indefinitamente, dato che sono molto delicati e facilmente graffiabili.
Se invece non si dispone di alcuno strumento
(e qui di fortuna ne occorre tanta, anche se si possono ottenere ugualmente
buoni risultati), si pone la fotocamera sul cavalletto, si innesta lo scatto flessibile,
si regola su “posa B”, diaframma tutto aperto, all’infinito, si inquadra
possibilmente (se esiste) una fonte luminosa fissa, la più debole e la più
lontana possibile (es.: da valle, un lampione stradale su un tornante di
montagna; la luce flebile di una casa sullo sfondo, ecc.), tanto per avere un
punto di riferimento.
La posa può variare, a seconda delle
condizioni ambientali, da 1-2 minuti fino a 20 minuti. Conviene annotare a
parte su di un’agenda: n.° progressivo del fotogramma, direzione del
puntamento, tempo di esposizione, orario e condizioni meteo ed ogni altro
particolare utile, in sede di stampa, all’identificazione della foto, specie
nei casi in cui si sia privi di punti di riferimento.
Di norma, è bene utilizzare tutto il
rullino nella stessa serata e scaricare la fotocamera subito dopo, adottando le
stesse precauzioni già descritte per il caricamento. Se non esistono “in loco”
le condizioni ottimali per effettuare tale operazione, è bene attendere il
ritorno a casa, a patto che ciò avvenga nel giro di poche ore e che, in ogni
caso, la fotocamera non rimanga esposta alla luce solare diretta o vicina a
fonti di calore. Se si prevedono queste eventualità durante il rientro, è
preferibile correre il rischio di togliere subito il rullino dalla macchina,
col sistema “sotto le coperte” (ovviamente va benissimo anche una giacca a
vento) o mediante un’apposita “camera oscura portatile” di tela nera,
impermeabile alla luce (in vendita nei negozi specializzati) e poi conservarlo
fino all’atto dello sviluppo nel suo tubo di plastica nera (sempre quello con
la dicitura “see warning”).
PARTICOLARE
DETERMINANTE
! All’atto dello sviluppo, usare esclusivamente i liquidi indicati ed osservare
scrupolosamente i tempi riportati sul foglietto inserito nella confezione; in
caso ci si serva di un professionista, raccomandargli tutto questo e
soprattutto di non operare alla luce della lampada rossa (la forza
dell’abitudine gioca spesso brutti scherzi). Avvertirlo, inoltre, di non
preoccuparsi se il negativo A PRIMA VISTA si mostrasse non impressionato o lo
fosse con forme inconsuete e, quel ch’è più importante, di NON SEZIONARE IL
NEGATIVO, ma di lasciarlo tutto intero, in striscia.
Alla fine di tutto questo è lecito
domandarsi, come nei passatempi enigmistici: cosa apparirà? Non posso certo
sapere cosa apparirà a voi che mi leggete, né voglio raccontarvi cos’è apparso
ad altri; vi dirò solo che a me qualcosa, anzi, molte “cose” sono comparse; ma
cosa di preciso? Non è facile spiegarle o definirle: occorrerebbe vederle coi
propri occhi, per farsi un’idea.
Sono “entità” dalle forme e dimensioni più
svariate: punti luminosi, bolle trasparenti, sigari fluorescenti, croci ansate,
stormi di “ochette”, ippocampi e “vermetti”, boomerang, filamenti luminosi
continui o tratteggiati, ecc.
Cosa rappresentano? Se ve lo dicessi, direi
una bugia, perché neanch’io, che pure li ho fotografati, lo so. C’è chi afferma
siano minuscole “creaptures” (critters), entità viventi in un’altra dimensione;
altri sostengono che si tratti di forme energetiche (bio-plasmatiche)
sconosciute; per altri ancora sarebbero “succhiatori” di energia, che fungono
da “supporters” ai ben noti UFO; infine c’è chi vede in essi i vettori del DNA
cosmico, cioè in pratica i diffusori della vita.
Se volete sapere la mia, probabilmente si
tratta, almeno in buona parte dei casi, di particelle elettromagnetiche
provenienti dallo spazio cosmico e trasportate sulla Terra dal “vento solare”.
Queste si propagano linearmente alla velocità della luce, sono dotate di
altissima energia e sono per questo altamente penetranti. Il nostro pianeta
viene da esse costantemente “bombardato”, ma la vita non potrebbe sussistere se
in massima parte non venissero schermate dalle fasce di Van Allen e dalla
cintura di ozono che circondano la Terra. Tuttavia capita sovente che qualcuna
di esse venga solo deviata nella sua corsa e non trattenuta, per cui, anche se
frenata, riesce a raggiungere il suolo con le traiettorie più bizzarre.
Noi non possiamo vederle perché hanno lunghezza
d’onda ben al di sopra della soglia di percezione umana (da 10-9 a
10-13), però la loro
energia viene registrata dal contatore Geiger-Muller e la loro “vita”
brevissima lascia una traccia luminosa più o meno lunga sul negativo.
CONCLUDENDO: non è sempre vero che ciò che il
nostro occhio non vede non possa esistere; anche virus e batteri, prima
dell’avvento del microscopio, l’uomo non li vedeva, ma ne subiva le malattie.
Analogamente: mentre io scatto, non “vedo” nulla, ma l’occhio del Geiger e della
fotocamera sì; 2 a 1 per loro, palla al centro e si riprende col secondo tempo
! ...
Giorgio Pattera - Parma, Aprile 1980
Contatto: giorgio.pattera@alice.it
BIBLIOGRAFIA
============
L.Boccone - UFO : LA REALTÀ NASCOSTA -
Edizioni Ivaldi/Genova 1980
G.Wagner - FOTOGRAFIA CON L’INFRAROSSO -
Edizioni Effe/Roma 1977
M.Micci - FOTOGRAFARE CON L’INFRAROSSO -
Ciapanna/Roma 1997
Cortellazzi/Germinaro - GLI UFO DI FRONTE
ALL’OBIETTIVO: COME SI
FOTOGRAFA
UN UFO - CUN/Notiziario UFO 1980
R.Balbi - L’INVISIBILITÀ UFO
NELL’ULTRAVIOLETTO - Sky Watch n.°3
Luglio
1980
R.Balbi - L’INVISIBILE COME NUOVA FRONTIERA -
CUN Genova
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